Testo di Deborah Rossetto
Nelle sculture di Matthew Attard fili di ferro e lastre di plexiglass formano composizioni apparentemente astratte, che divengono figura nelle mani – o per meglio dire nell’occhio – dello spettatore. L’artista conferisce al fruitore l’assoluta responsabilità del compimento dell’opera che, qui, non ammette fruizione passiva ma innesca un meccanismo di ricerca.
La ricerca visiva – che consiste nel cercare il punto di vista favorevole alla costruzione della figura – offre la possibilità di sospendere gli aspetti metabolizzati dei meccanismi dell’osservazione, avviando un ragionamento compositivo per nulla consueto. E’ nella sospensione di automatismi che lo spettatore contemporaneo – saturo di immagini – ritrova la capacità d’attenzione e d’osservazione indipendente.
L’operazione di Attard parte proprio dall’analisi delle pose dell’uomo, talvolta conseguenze di naturali istinti, talvolta vittime di teatrali simulazioni di ruolo.
We are all posers, siamo tutti poser. Poser nella misura in cui assumiamo pose artificiose, dunque innaturali e non rispondenti a necessità o urgenze, con lo scopo di attribuire nuove attitudini e atteggiamenti alla rappresentazione di noi stessi. L’artista maltese esplora, in quest’ultimo progetto, l’universo antropologico del selfie, una nuova modalità di auto-rappresentazione che trova origine all’interno del fenomeno culturale dei social media. Un sistema ormai comportamentale dove il tema centrale è l’autoscatto e il risultato fotografico – digitale – è reso pubblico e diffuso nelle piattaforme virtuali. Fenomeno, quello dell’autocelebrazione, non certo inedito nella storia della fotografia: si pensi, per fare un esempio, alla tendenza delle Cartes de visite, a cavallo tra ottocento e novecento, ove il neonato mezzo fotografico assolse il desiderio dell’individuo di celebrare la propria immagine ma, sopratutto, di diffonderla e di godere delle immagini altrui.
Attard compone cinque ritratti recuperando immagini della tipologia selfie dalla piattaforma virtuale e le sospende, tradendone la natura di immagini create per una fruizione rapida e disattenta e costringendole – elevandole – a divenire soggetti di un’osservazione consapevole e di una sedimentazione del pensiero. La sua è un’analisi del fenomeno scevra da parteggiamento, a partire dal titolo – We are all posers – in cui ammette partecipazione a questo nuovo linguaggio culturale del quale ne analizza le conseguenze formali e psicologiche ponendo l’accento sul linguaggio del corpo. Un linguaggio che, in questo specifico caso – rappresentando una nuova forma di comunicazione –, segue le regole della composizione plastica, disegnando, reinventando, componendo nuove pose al proprio corpo. Ed è questa l’analisi alla quale giunge poi lo spettatore, che si serve delle sospensioni che propone Attard: la sospensione oggettuale – le sculture penetrano lo spazio, appese nel vuoto, permettendo al fruitore l’analisi visiva integrale –, la sospensione del giudizio – l’artista non parteggia, non critica, non pone in evidenza alcuna sentenza ma osserva e propone una riflessione – ed infine la sospensione intellettuale, quella riservata allo spettatore che abdica ai meccanismi abituali di cognizione e rende possibile prima il processo di consapevolezza percettiva poi il ragionamento.
Non ci resta che affidarci a queste lucide sospensioni, nella speranza di ritrovare un luogo nell’arte ove i meccanismi di cognizione e ragionamento, spesso corrotti da automatismi e spesso sorpassati da effetti spettacolari, possano ritrovare una posizione.