SOGLIE E LIMITI

SOGLIE E LIMITI
di Elena Forin

Soglie e limiti nasce da uno scambio avuto con Michela Rizzo sul rapporto tra pesantezza e leggerezza: la gallerista mi aveva detto che da un po’ stava pensando di affrontare attraverso il suo programma espositivo questa coppia di valori e di variabili. Così abbiamo cominciato a confrontarci – e il nostro discorso da subito ha preso le forme di un “flusso di immagini” fatto di opere e di artisti che potevano rappresentare in varie forme questo asse. Solo all’inizio del nostro ragionamento siamo rimaste fedeli a un’idea letterale di peso, e ben presto ci siamo mosse verso zone al limite tra i due opposti, giungendo così a vedere l’indefinibile area grigia che si muove tra un assoluto e l’altro. Pensando a opere, approcci e modalità di lavoro ci siamo infatti inoltrate in territori in cui la presenza di una sola di queste categorie è sostanzialmente impossibile – perché l’una richiama sempre
l’altra – dimostrando quanto due universi possano essere più che opposti complementari, e annullando l’idea di limite come confine assoluto.
Alcuni nodi sono stati fondamentali: prima di tutto – e inevitabilmente – il concetto di “peso” è legato a quello di materia, alla sua composizione e natura, alla sua densità e quindi ai termini opposti di pieno e di vuoto. Ma quanto sono letterali questi termini? E quali possibilità ci offrono nel campo della rappresentazione? Quale rapporto si può creare tra questi valori in termini visivi e teorici?
La mostra si sviluppa quindi nel tentativo di dare alcuni spunti per la risposta a queste domande e come un tentativo di mettere a fuoco spazi misti, in cui la certezza lascia il posto alla possibilità.
E in cui l’idea di limite segna una soglia verso nuove letture del reale e della visione.
La materia e il suo contrario Banalmente, alcuni materiali implicano per natura l’idea stessa del peso: marmo, ferro e cemento sono solo alcuni di questi. In realtà la consistenza in termini di chili è, proprio come per tutti gli elementi, legata alla dimensione. A Roomful of air, prodotta
appositamente per la mostra, offre in questo senso una opportunità di analisi piuttosto interessante. David Rickard (Nuova Zelanda, 1975), il suo autore, da tempo indaga il rapporto tra spazi, materiali e le dinamiche ad essi connessi per verificare il tipo di comprensione che abbiamo della realtà: le sue opere fanno emergere aspetti spesso
sommersi, per dimostrare quanto lo sguardo al presente, al tempo e al contesto in cui siamo calati sia pieno di variabili e quanto queste incidano sulla lettura che diamo alle cose. Molti suoi lavori hanno infatti lo scopo di mostrare proprio ciò che è invisibile: così è stato per Exhaust, una performance realizzata in varie sedi tra il 2008 e il 2011 (e
recentemente, a settembre a Bruxelles) in cui l’artista respirava attraverso una maschera dentro dei palloni argentati. Al termine dell’azione, della durata di 24 ore, il risultato era un grappolo di elementi che rappresentavano in termini visivi e scultorei-installativi il volume occupato ogni giorno da una persona, e di conseguenza, la quantità d’aria respirata e necessaria per lo svolgersi della vita di un individuo. Anche per Soglie e limiti Rickard dà corpo a quell’elemento impercettibile che è l’aria, nello specifico però l’artista sceglie di usarla come “metodo di misurazione” della sala della galleria in cui la sua opera viene esposta. Spesso i suoi lavori rispondono alla domanda “che cos’è lo spazio?” ed è così anche in questo caso perché A Roomful of air traduce in una scultura fatta di moduli di piombo quadrati, la quantità d’aria presente nella stanza. Un piccolo oggetto tutto sommato, ma di 240 chili: ecco quanto pesa quello spazio.
Un altro fattore indispensabile per il nostro vivere è rappresentato da un’entità altrettanto invisibile e fondamentale, la forza di gravità, il cui impatto e il cui peso sono raccontati da Head over Heals. Realizzata in Svizzera durante la residenza Kunstdepot l’opera, che si compone di una sfera geodetica in acciaio, di una foto e di un video, racconta l’impatto della pendenza e dell’atmosfera sui corpi. Rickard, dopo aver risalito una montagna, ha fatto rotolare la scultura lungo il crinale, registrando attraverso una telecamera interna alla sfera, le fasi e le conseguenze impresse sulla forma e sull’integrità dell’oggetto durante tutto il processo e mettendo a fuoco un’identità fatta di accelerazione e attrazione costante (oltre che) inevitabile al terreno.
Se l’immaterialità di elementi invisibili che trovano consistenza dimostrando così la concreta rilevanza del loro essere è alla base delle opere di Rickard, Mariateresa Sartori (Venezia, 1961) lascia invece che siano il suono e il linguaggio a veicolare il concetto di
intensità.
In Preghiera a sua madre perché muoia (di Mariangela Gualtieri, tratta da Le giovani parole, Einaudi 2015, per concessione dell’autrice. L’opera è del 2016 e non è mai stata esposta a Venezia) l’artista affida la lettura di una poesia a un’attrice tedesca che non conosce l’italiano, Juliane Koenig: il testo è struggente, ma per Sartori è importante che
ogni parola venga pronunciata per se stessa, portando nell’equilibrio globale del poema un peso e un significato autonomi dal tutto. Per questo oltre alla scelta della lettrice è stato importante mettere a punto un metodo che consentisse di isolare completamente ogni suono: le parole sono state lette al contrario, partendo dall’ultima e arrivando alla
prima, con delle pause tra l’una e l’altra. In questo modo nel montaggio finale, che rispristina l’ordine originale e in cui sono stati rimossi i silenzi, ogni elemento si presenta da solo: “i versi di Mariangela – dice Guido Barbieri, critico musicale, in una lettera all’artista – nella tua “visione” sono diventati così freddi da diventare incandescenti. Una
specie di fusione gelida che li rende appuntiti come una stalattite”. Avvolte nella penombra di una sala espositiva intima e raccolta, queste parole incalzanti, a tratti dure, alle volte stentate, incerte, fragili e poi ancora violente e drammatiche, restituiscono con una potenza ulteriore il valore del testo originario: il pathos è stato eliminato rimuovendo il contesto semantico, ma ritorna attraverso il puro seme del suono e dell’armonia presente in ogni parola. Una analisi questa, che aggiunge un tassello importante nella ricerca della Sartori perché unisce l’interesse al suono a quello per i linguaggi e il comportamento in un unico straordinario lavoro. Lasciando per un attimo le intense vibrazioni della leggerezza per tornare alla materia, un ragionamento molto interessante, proprio perché connette variabili opposte nella percezione del peso, lo offre la ricerca di Benjamin Bergmann (Wuerzburg, 1968). L’artista affida infatti a ferro, cemento e alluminio il compito di tradurre un’idea di energia latente: ciò che si sprigiona dalle opere esposte è infatti il senso di un densissimo“potenziale” – in questo caso legato a spazi ed eventi. Leitung auf Putz über
Eck (2012) ad esempio rappresenta un sistema elettrico collocato in una posizione insensata, in una parete in cui non può avere alcun possibile compito funzionale. Si tratta in qualche modo di un elemento di rottura, di qualcosa che si nota proprio per la sua incoerenza: eppure poco alla volta, guardandolo, questo oggetto si racconta per ciò che è, una delle venature simboliche dell’edificio, il punto di passaggio dell’energia che caratterizza un contesto come quello della galleria, ma anche uno stabile vissuto da artisti e artigiani, una ex birreria in cui la produzione e il lavoro davano – e danno – il ritmo che scandisce metaforicamente il tempo. Il tempo del resto è anche una delle dimensioni di Redentore. Private version (2018), un’opera legata a Venezia, alla sua storia, alle sue tradizioni, al suo presente e alla permanenza dell’artista nella città. Con questa installazione – composta da cinghie di ferro e acciaio e lanterne di cemento – Bergmann recupera le radici della nota celebrazione di fine luglio, un evento gioioso ed estremamente vitale in cui le persone si riuniscono per festeggiare la città. L’occasione era però nata per ricordare la fine della peste che nei due anni tra il 1575 e il 1577 aveva sterminato un terzo della popolazione lagunare, ancorandone le sorti a quelle della morte: Redentore quindi, attraverso l’attenta scelta dei materiali traduce ciò che in molti oggi non ricordano – il dolore e la paura di uno sterminio – e dimostra quanto questo doloroso passato rimanga sempre sottotraccia nel fragile equilibrio di Venezia: le ragioni e i fatti
della storia si intrecciano inevitabilmente nel presente, e l’energia di una realtà che vive intensamente ogni spazio, si mescola con il pericolo latente della propria fine.
Se con Redentore Bergmann produce un continuo movimento mettendo in dialogo il passato e il presente, Federico De Leonardis (La Spezia, 1938) affida ai due lavori esposti a Soglie e limiti il compito di rendere tangibile la dimensione del tempo, tanto nelle sue qualità effimere e filosofiche, quanto in quelle più tangibili. Quella che ritiene essere l’opera più importante che abbia mai realizzato è Tagliatella, la cui prima versione è del ’77: si tratta di quattro strisce di carta di riso che vengono attaccate al muro a creare una cornice. I lembi però non si toccano e quindi gli angoli sono aperti: il lavoro così è senza confini netti, senza limiti di spazio, e si apre al fluire delle cose. Alle volte la carta – che è bianca, e quindi si inserisce in maniera mimetica sul muro – riporta le tracce di una scrittura, di un’immagine, di un’entità indecifrabile che si presenta come la porzione di un segno: è un segno netto, puro e assoluto, e non descrive nulla. Non è forma, non è parola: è la rimanenza di ciò che è stato, di qualcosa che si è compiuto e di cui non si conosce la storia, proprio come nel caso dell’accumulo esposto nella sala grande. Cono d’ombra è un grande volume di martelli in ferro a cui si avvicina una calamita che scende dal soffitto tramite un cavo: ogni materiale, compresa la piccola porzione di spazio vuoto
tra i metalli e il magnete, è scelto e impiegato in quanto “residuo”, come traccia di un processo inesorabile e continuo, che raccoglie e libera l’energia della storia, di tutte le volte che quei martelli sono stati usati, del gesto che li ha animati, della volontà di costruire e di distruggere, della forza che tiene insieme tutti questi fattori raccontandoli come la sintesi di un’esperienza. L’opera è quindi per De Leonardis il tempo: quello che è connaturato a Cono d’ombra e alle azioni rimaste nei martelli, quello che attraverso e dentro la Tagliatella si può/si potrà/si è potuto compiere. È l’energia possibile, quella usata, latente, sprecata, finita o avanzata, ma che comunque sia, proprio come il tempo, caratterizza l’essere dell’uomo – e quindi, l’essere della storia. L’essere del tempo è del resto per De Leonardis la dimensione che solleva i materiali dal loro peso reale, per dar loro una consistenza e un volume altrettanto importanti, proprio perché legati alla vita dell’uomo. Il senso dell’esistere nel suo sviluppo attraverso le ore e i giorni in un flusso continuo d’esperienza è un nodo fondamentale anche della ricerca di Giorgia Fincato (Bassano del Grappa, 1982). Il suo è un concetto di peso che si declina attraverso l’azione della penna sulla superficie: il disegno è una pratica costante e quotidiana, al punto da diventare, come lei stessa dice, l’estensione del suo corpo, “una disciplina che traccia sulla carta l’essenza e la mia presenza nel tempo”. Le sue opere nascono da un lavoro instancabile che prevede l’uso continuativo dell’inchiostro sulla carta: si tratta di atti intuitivi, di un fare che si traduce in una linea continua che “crea e distrugge prospettive” rappresentando in fondo la più profonda natura e la propria attitudine a vivere il mondo. In questo senso le opere sono delle mappe che descrivono il seme più intimo non solo della personalità dell’artista, ma specialmente dell’evolversi del suo sguardo. Nell’installazione di 50 elementi che espone a Soglie e limiti, la Fincato dimostra infinite possibili visioni, approcci e prospettive che risentono di un numero imprecisato di variabili – quelle variabili che (s)regolano il quotidiano e che componendosi in un insieme tracciano il grafico di una porzione di esistenza. Alle volte il tratto è più leggero, altre più spesso e pesante, in altri momenti i segni si aprono, in altri sono fitti e ossessivi, in alcuni momenti la composizione è ariosa, in altri asfittica: la variazione di intensità è un dato di cui l’uomo è misura e attivatore al medesimo tempo. Un ottimo confronto per le dinamiche che si compiono dentro e fuori il segno, così come dentro, fuori e oltre la superficie di queste 50 carte, è l’opera esposta nella project room della galleria, che ospita un lavoro che per proporzioni e modalità compositive illumina sulla profonda diversità a cui i lavori della Fincato possono dar corpo. Una diversità che incarna le possibilità infinite dello sguardo sul mondo. In tema di sguardi e visioni, Matthew Attard (Malta, 1987) porta a Venezia gli ultimissimi capitoli della sua indagine. Anche per lui la prospettiva è un nodo centrale, proprio come
il segno, e se in passato si è concentrato sulla percezione dei corpi nello spazio, nel loro diventare linea pura perdendo ogni sostanza corporea, in questo caso la verità della lettura della forma è il centro di tutto. I suoi lightbox fatti di luce e di tratti sottili che si distribuiscono sulla superficie, aprono anch’essi, come altri lavori esposti in questa occasione, il dibattito sull’idea che ci facciamo del reale e sull’unicità della visione. Grazie al supporto dell’Università di Malta e del Laboratorio di arti digitali, usando la tecnologia dell’eye-tracker, l’artista ha sviluppato una ricerca sulle possibilità che connettono pratica
artistica e modelli tecnologici, e sulle declinazioni del tradizionale disegno dal vero. Durante delle lezioni infatti, Attard ha chiesto ai partecipanti di guardare altre persone, animali, parti del corpo come braccia o mani e di tracciare con lo sguardo una sorta di disegno ripercorrendo tutte le linee e le forme: il risultato di ogni “ritratto” è stato poi analizzato e composto in opere che li riproducono singolarmente o sovrapponendo più visioni l’una sull’altra, proprio come in questo caso. Ciò che emerge da questo studio è senz’altro la profonda differenza dei disegni realizzati sullo stesso soggetto, una differenza questa che pare forse ancor più lampante trattandosi di forme tutto sommato elementari, inaspettatamente interpretate attraverso molteplici forme di giudizio. Inoltre, all’interno del nostro ragionamento, la totale assenza di materiali, l’impiego della
tecnologia e di un apparato concettuale aprono le porte per una definizione senz’altro molteplice e in continuo cambiamento sulla natura della percezione e sugli strumenti con cui misurare e dar corpo alla visione. Non è una Figura (non è un Uomo) di Riccardo Guarneri (Firenze, 1933) sembra proseguire su questa linea: instancabile indagatore della pittura da oltre cinquant’anni, l’artista con questo lavoro del 2003 e con La geometria può essere poesia del 2018 dimostra quanto l’indagine sulla forma, la linea, la luce e il colore siano campi tutt’ora fertili per sperimentazioni sulla natura della visione, sulla sua esperienza e su quanto essa possa essere molteplice. La prima delle due opere traduce tutti gli assoluti del suo linguaggio formale dagli anni
Sessanta a oggi: il comporsi delle geometrie, l’emergere di eventi sulla tela, la disgregazione del colore nella luce. Potrebbe sembrare un corpo, eppure come dice il titolo non lo è: Guarneri non traduce la natura, non almeno quella del paesaggio. Per lui probabilmente la natura è una questione di sguardo, di visione, di complessità che si sommano creando momenti unici, in cui ogni cosa perde il proprio contorno e diviene suggestione. Così è persino per la geometria, che nel lavoro del 2018 diviene un unico armonico con la superficie della tela, e, insieme, crea contrasti di luce che incantano la mente: ecco come nasce la sua poesia, ecco come nasce la sua pittura, da un fare fatto di nulla, di pura luce e di assenza di materia. Procedere in questo modo dice l’artista, non consente pentimenti, e il margine di errore è minimo: la gestazione dell’opera è lunga e meditata, la sua realizzazione rapida. In questo modo si mantiene la freschezza della pittura, in questo modo si tocca il profondo del linguaggio e della sua percezione creando un’esperienza toccante e unica.
In tema di linguaggi, e spostandoci per ora dall’universo della pittura a quello della performance, un altro artista per cui tutto nasce da azioni ed eventi che si sviluppano tra spazio e tempo è Roman Signer (Appenzell, Svizzera, 1931), di cui troviamo in mostra
alcune foto e una scultura, la punta di una canoa.
Lo sguardo sul presente e sulle cose, l’identità degli oggetti, la loro capacità di trasformarsi acquisendo funzioni e caratteristiche diverse dal solito, l’attenzione per i processi creativi, per le dimensioni nascoste della realtà e per le sue energie potenziali, hanno un ruolo cruciale per l’elaborazione di un linguaggio e di una ricerca unica, che ha saputo coniugare rigore della forma e tensione naturale verso il cambiamento. Blauer Rauch, del 1984, e a Kabine (Venedig) del 2012 ad esempio, offrono un affondo su questo sguardo proiettato verso la trasformazione e le dinamiche di progressione che caratterizzano la materia visiva nello spazio: realizzate a 30 anni di distanza, le due immagini isolano momenti di azioni in cui l’obiettivo non è tanto l’esito finale, quanto l’analisi dell’instabilità, del movimento e della curiosità verso cui tendono oggetti e materiali. Rappresentano due momenti cruciali, due attimi – quello del progresso e quello della quiete – che si ritrovano in molti altri lavori dell’artista che sceglie appunto le
relazioni tra energie realizzate e stati di calma per analizzare limiti e possibilità negli usi e nella natura degli oggetti: la canoa, sintetizzata ulteriormente nella sua punta, segno e strumento del movimento e della scoperta, rappresenta insieme al fumo e al colore il simbolo di tutto il suo procedere, di tutto ciò che può accadere, dell’istinto naturale alla conoscenza. È lo strumento per l’avanzare – impalpabile, ovattato e non sempre a fuoco – dell’indagine (Flussaufwärts, del 2008), è ciò che serve per vivere nel cambiamento (Kajakspitze mit Velo, 2012). È una forma simbolica, è il dispositivo attraverso il quale l’opera emblematicamente si manifesta diffondendosi e appropriandosi dello spazio, come accade quando la punta si attiva facendo fuoriuscire il fumo colorato. È il fascino dell’apparizione quello invece che contraddistingue la fase dei primi anni Sessanta di Saverio Rampin (Venezia, 1930-1992): la sua indagine pittorica in quegli anni si sposta dalle tensioni energiche e a tratti cupe della decade precedente, alla presenza di forme e fasci che compaiono sul campo luminoso circostante, creando un fortissimo impatto anche quando la scelta cromatica ricade su tinte delicate come nel caso del Senza Titolo del 1963, esposto per Soglie e limiti. In questo lavoro, in cui il colore si
dispone al centro della tela, la luce sembra in qualche modo trasparire dalla macchia più scura: la pittura è un’entità viva, che si muove attraverso pennellate distese per creare atti e forme. La consistenza di questa pittura è, come anche per Guarneri, quella della luce: non è un’ombra quel corpo azzurro, quanto l’accadere di qualcosa che si concretizza pur rimanendo liquido e aereo. È forse il tempo di una sensazione, dell’incontro tra la purezza visiva e l’esperienza esistenziale, tra la calma di una spazialità distesa e l’inevitabile dispersione di ciò che poco a poco potrebbe sciogliersi nella luce. È un’opera silenziosa, ma in cui accade tutto, tutto quello che porterà l’artista a raccontare attraverso un colore opaco e dal trattamento “graffiato” e leggero – eppure sempre intriso di luce, intesa come rarefazione pura, intima e inevitabile – quelle tensioni e quei fatti poetici e naturali che attraversano l’uomo e il tempo.
Energie e potenziali
Al termine di questo breve viaggio, tirando le somme, chi scrive pensa di poter dire che nella profonda differenza di approcci, generazioni e linguaggi proposti, la mostra metta in luce alcune dinamiche trasversali, che permettono qualche considerazione generale.
Peso e leggerezza ad esempio dimostrano una profonda radice in termini di energia e tempo. Questi due aspetti, presenti nei lavori esposti, rappresentano senz’altro uno dei binari su cui si muove il senso della materia, il suo presentarsi e connotarsi nel contesto, il suo apparire e sparire in termini di consistenza. La presenza oggettuale non circoscrive il senso di ciò che questi artisti ci mostrano, e anzi là dove tutto inizia dal corpo, si finisce con l’approdare all’universo invisibile delle idee, della storia, della sensazione e del possibile (Bergmann, De Leonardis, Signer). La leggerezza d’altro canto, sia quando è data dall’immaterialità del linguaggio (Sartori, Attard) sia quando è collegata al concetto di invisibilità (De Leonardis, Rickard, Sartori) finisce col mostrarsi come un valore che tende inevitabilmente verso la monumentalità: la sfera del possibile (Signer, De Leonardis) insieme a quella del sentire (Attard, Fincato, Guarneri, Rampin e Sartori), del percepire in generale (Fincato, Guarneri, Rampin e Rickard) e del tempo (Bergmann, De Leonardis, Fincato) rivelano la straordinaria grandiosità di dimensioni spesso sommerse. Non ci sono confini e non ci sono limiti: il corpo rivela l’assenza, l’assenza rivela il corpo; la pittura e il segno toccano le corde dell’intimità, il ferro attrae il magnete del tempo, il suono e la luce muovono lo spazio dell’intimità e della percezione, il cemento rievoca la fine latente, il fumo l’energia in continua espansione. Il potenziale è il filo che si muove sottotraccia in tutte queste opere, la monumentalità quello che in modo diverso le caratterizza tutte.