DINAMOGRAMMI
CORPO_ MENTE_ IMMAGINARIO_IDEOLOGIA_DESIDERIO
di Viana Conti, 2019
STANZE:
1-Azioni di Scrittura.
2-Politica e Poetica del Desiderio.
3-Cartografie dello Smarrimento.
Introduzione. La mostra messa in opera alla Galleria Michela Rizzo a Venezia delinea per mappe, tra iconico e aniconico, semantico e asemantico, l’irriducibile complessità dell’arte, il labirintico percorso del segno nella cultura d’Occidente. Il termine, di derivazione greca, Dinamogramma, (da dynamis potenza, forza, energia, movimento, e da grammatiké, costituente strutturale di frasi, sintagmi, parole, derivato, a sua volta, da gráphein, scrivere e da gràmma, elemento letterale) che intitola la mostra, fa cenno al comune denominatore che connota artisti e opere: un’energia dinamica del gesto scritturale che lo rende performativo, inducendo lo spettatore a percepirne la motivazione mentale, l’azione fisica, la pulsione psichica, la reazione neurale, che lo sottendono, materializzandolo poi, visualmente, nella finale traccia segnica.
Una mostra in cui la neo-avanguardia di Balestrini, Blank, Ferrari, si confronta con la contemporaneità di Fincato e di Attard, e in cui la condizione estetica analogica non cessa di prevalere su quella digitale, praticata, tuttavia, dalla giovane presenza di Attard. Nella dialettica tra affinità e differenze, la rassegna non cessa di mettere in scena il Labyrinthos etico, psichico e politico dell’uomo occidentale, le pulsioni del desiderio, le trasgressioni della regola, le insidie dell’Industria Culturale di una società consumistica di massa. Il ricorso a termini come dinamogrammi, con possibile rinvio a engrammi, gli accostamenti liberi di autori e opere, né logici né cronologici, spesso mimetici, tematici o associativi, chiama in causa una figura ineludibile come quella dello storico dell’immagine e ricercatore amburghese Aby Warburg, con la sua regola del buon vicinato, messa in opera teoricamente nel suo Bilderatlas Mnémosyne/Atlante d’immagini Mnemosine e archivisticamente nella Biblioteca (KBW) del Warburg Institut di Londra. Talvolta, da scambi di contesto, da accostamenti di epoche diverse, come attuato dalla proposta espositiva di Michela Rizzo, scaturiscono associazioni e letture inedite.
Matthew Attard (Malta 1987) ha alla base della sua ricerca il disegno, attuato con mezzi sia manuali che di tecnologia avanzata e, nel fuoco della sua attenzione ha la Posa del soggetto, particolarmente riferita alla postura del modello o della modella di memoria accademica. Realizzando con filo di alluminio sculture bidimensionali di dettagli dal gruppo scultoreo del Ratto di Proserpina del Bernini,1621-1622, e dal dipinto del Ratto di Europa di Tiziano,1560-1562, l’artista avvia un’analisi iconologica, sia biblica che erotica, della violenza presente nella cultura laica e religiosa della società occidentale. Altrettanto critica e ironica è la sua rappresentazione su iPad di selfie del soggetto dipendente dai social, perennemente connesso ed esibito in ibridazioni tra pubblico e privato, tra intimità e oscenità, tra identità e stereotipo. Rientra nella sua ricerca segnica la tecnica scientifica, applicata all’arte, dell’eye tracking/tracciamento oculare, che registra, in tempo reale, il tracciato dell’occhio durante la visione, stabilendo gradi di attenzione del soggetto, sue reazioni emotive e suoi processi cognitivi. Completa la mostra un Salvator/Selfie: video che, sulla base di un algoritmo, trasforma “anamorficamente”, senza soluzione di continuità, la figura del Cristo nel selfie di una modella.
Nanni Balestrini (Milano 1935, Roma 2019) scrittore, poeta, artista visivo, video artista, esponente della neo-avanguardia degli anni Sessanta, presente nei Novissimi e cofondatore del Gruppo 63 è un protagonista della letteratura, della scrittura visuale e dell’editoria del XX secolo, è l’autore, come scrive Andrea Cortellessa, di un romanzo controstorico, di un’epica dal basso. È il primo artista e scrittore a ricorrere al calcolatore IBM per elaborare i suoi Cronogrammi. Pratica la citazione tramite collage di frasi, titoli, parole, per uscire dalla gabbia tipografica, ottenendo l’esito di guardare un cut up, di segno politico o poetico, come si guarda un quadro. In mostra il grande inkjet su tela Bombe molotov, collage di titoli in caratteri tipografici differenti, in bianco e nero, 1972-2017 e un ulteriore inkjet su tela, collage di titoli in caratteri tipografici differenti dal titolo La violenza proletaria, in rosso e nero su bianco, 1975-2017. Sono lavori iconico- scritturali di denuncia e protesta, di lotta e militanza, realizzati/elaborati in un ampio arco temporale. Scrive, a questo proposito, Beniamino della Gala: Balestrini ha composto un glossario della lotta di classe, ha scritto e vissuto il passaggio consapevole dall’io individuale al noi, da un sentire proprio l’essere collettivo. Degli anni Ottanta, durante l’esilio politico in Francia, sono gli acquarelli di calligrafie corsive e liquide e i pastelli gestuali su carta, presentati in mostra. Nanni Balestrini, il poeta epico del Sessantotto italiano, come lo ricorda Franco Berardi Bifo è allegro, questa è la lezione che imparate se state ad ascoltarla… è allegro quando danza con la signorina Richmond è allegro quando è triste e dice: siamo come dei personaggi di Stendhal. Balestrini è l’allegria che non demorde. Ora con l’inkjet e la stampante su tela ingranditi di molte volte e sparati con nettezza su fondi verniciati e abbacinanti ci parla di distanze abissali. Irma Blank, figura di rilievo internazionale (nata a Celle, Germania occidentale nel 1934, residente e operante a Milano) presenta opere della Serie Gehen-Second Life/Andare- Seconda Vita, iniziata nel 2017, in seguito ad un improvviso freezing motorio, evento che la induce alla reinvenzione di un andamento scritturale su pagine di carta da lucido, singole o accostate in sequenza, tracciato a penna in colore blu, rosso o nero. Da quel momento, l’abilità manuale della destra si trasferisce scoprendo quella vergine della sinistra, il gesto che portava all’esterno la concentrazione interiore dell’artista si proietta sulla linearità della traccia come percorso sul terreno, mettendo in coincidenza il tempo che scorre con il movimento sulla superficie del supporto, identificando la vita con l’opera. Ma non l’aveva detto anche Gillo Dorfles che il lavoro di Irma Blank è in profonda sintonia con quello di Roman Opałka, artista di indubbio riferimento della galleria veneziana Michela Rizzo? Come sosteneva anche Edoardo Sanguineti, spesso il gesto innovativo di un artista scaturisce dall’arresto di una potenzialità su un versante, ad esempio visuale, e di potenziamento sensoriale, ad esempio tattile, su un versante altro.
León Ferrari (artista nato nel 1920 e morto nel 2013 a Buenos Aires) figlio dell’architetto, pittore e fotografo italiano Augusto Cesare Ferrari e di Susana Celia del Pardo, è un primario esponente del movimento Concettuale nello scenario dell’arte contemporanea latino-americana. Eclettico in direzione sperimentale, l’artista italo-argentino ritorna, con questa mostra, in quella Venezia che lo ha premiato con il Leone d’Oro nella Biennale 2007, che l’anno successivo, 2008, è invitato dalla Galleria Michela Rizzo, allora nella sede di Palazzo Palumbo Fossati, per la personale curata dalla compianta storica dell’arte argentina Irma Arestizabal e nel 2009 invitato al MoMA di New York con i suoi Tangled Alphabets. Dopo le iniziali intense esperienze scultoree – spesso articolate in filamenti metallici – di modellazione in ceramica, gesso e cemento del periodo 1954-1960, la sua ricerca approfondisce il potenziale espressivo, comunicativo, irriverente, della scrittura semantica e asemantica, calligrafica ed epistolare, della Mail-Art, in particolare nell’arco degli anni Sessanta e Settanta, aprendosi poi a esperienze di strutture installative, di azioni performative, di interazioni sonore tra scultura-pubblico-video. Ricorrenti nella sua opera sono la pratica della mimesi, della ripetizione, del ricorso a codici segnici segreti, a manuali tantrici, a riletture profane della Bibbia. Come esponente di una neo-avanguardia post-surrealista, di una segnaletica alchemica, Ferrari non ha mancato di interessare Arturo Schwarz, che lo ha pubblicato con i suoi primi disegni o scritture astratte nell’International Anthology of the Avant-Garde del 1962, Milano. I suoi accostamenti di elementi extrartistici, perfino escrementizi, sono spesso incongrui, divertenti e irriverenti al tempo stesso, usati in direzione polemica, denigratoria, provocatoria, nei confronti degli abusi del potere laico e cristiano sulle minoranze, sulla donna. Non si può tacere del suo esilio dal 1976 al 1991 a San Paolo del Brasile, dopo aver perso il figlio Ariel durante la repressiva dittatura argentina. L’artista stesso precisa che la sua attività ha un versante di analisi estetica del linguaggio e un versante di militanza e denuncia a difesa dei diritti umani, che culmina quando, nella retrospettiva del 2004 al centro culturale Recoleta di Buenos Aires, espone la grande scultura dipinta a olio, del 1965, intitolata La civiltà occidentale e cristiana in cui un Gesù Cristo di santeria è crocifisso su un cacciabombardiere FH107 nordamericano, di quelli impiegati nella guerra in Vietnam: durissima la condanna di blasfemia nei confronti dell’artista dell’allora cardinal Bergoglio, arcivescovo della capitale argentina. Il Quadro escrito del 1964, La Civilisación occidental y cristiana del 1965 e Nosotros no sabiamos del 1976, segnano momenti chiave della sua vita d’artista e di uomo libero. In mostra, di piccole e medie dimensioni, un inchiostro a penna blu su carta del 1979, una rilettura erotica indiana della Bibbia del 1987, sette cristi bianchi in croce su un fondo michelangiolesco, un Senza titolo di erotismo orientale, un collage visionario del 2004, una pittura su fotografia laser del 2005, dello stesso anno l’inchiostro su cartone Le pene dell’inferno, quindi una sequenza di eliografie in cui accosta ai letraset suoi disegni, creando convivenze asfittiche e labirintiche tra persone, animali, vegetazione, insediamenti abitativi, con rimandi alle derive psicogeografiche del Situazionismo debordiano. Come mi ricorda recentemente l’artista Irma Blank, presente nella mostra veneziana con lavori attuali, León Ferrari figurava con lei tra gli artisti invitati al Centre Pompidou, Parigi, nella rassegna Modernités Plurielles 1905-1970, nell’ottobre del 2013. L’attitudine sciamanica di León Ferrari conferisce carisma a una figura d’artista che sa utilizzare l’estetica per mettere anche in questione l’etica della cultura occidentale.
Giorgia Fincato (Marostica, nei pressi di Vicenza,1982, vive e opera a Bassano del Grappa e New York) è un’artista del segno e disegno scritturale che non rappresenta la cosa, la figura, il mondo, ma lo costruisce, con l’inchiostro o la penna, nello scorrimento autonomo della mano sulla carta. Sorta di mandala in cui dialogano labirinti d’Oriente e d’Occidente, le sue grandi composizioni scritturali mettono in coincidenza l’intime et l’extime lacaniano, il silenzio interiore e il brusio esterno di un ininterrotto movimento browniano dell’essere e della materia. Nei suoi tracciati si percepisce la tridimensionalità di corpi, grattacieli, cattedrali, costruiti/decostruiti da un andamento nomadico, esplorativo del gesto sulla superficie. Le sue cartografie, estese nel tempo e nello spazio, sono mappe di una città ana-architetturale, colta in un processo di de-territorializzazione che riflette l’hic et nunc dell’artista, impegnata in un viaggio in cui l’uno e il tutto familiarizzano e interagiscono. Il suo lavoro stimola una doppia lettura: quella delle presenze geometrico/anatomiche, dislocate imprevedibilmente nello spazio, e quella degli interstizi che separano e interrompono la sua scrittura evenemenziale. L’intelligenza emotiva, da cui Giorgia Fincato è stimolata ad agire, esprime l’infinito nel non-finito del suo andamento scritturale. L’artista non intende rappresentare, ma presentare l’esito del suo processo in fieri come traccia di una ricerca del suo esserci. Il segno che le scaturisce dal gesto della mano sembra esserle dettato da una sconosciuta componente energetico-vitale, che si potrebbe denominare dinamogramma, come non dispiacerebbe ad Aby Warburg. La sua opera è una sorta di diario illeggibile in cui è ritratta l’autrice nel suo divenire altro, nel suo ritrovarsi smarrendosi, nel delineare il labirinto in cui entrare per ritrarsi dal mondo esterno, riguadagnato all’uscita con altri occhi, gestualità altra. Come la corteccia di un annoso albero, le sue cartografie rivelano le stagioni reali, mentali, emozionali, dell’artista, delineandone un ritratto in divenire.